Empowerment, nella sua origine etimologica, è una parola bellissima: significa potenziare, conferire potere, mettere nella condizione di.
L’Empowerment femminile, quindi, è quell’insieme di attività volte, da un lato, a potenziare e rafforzare nelle donne la consapevolezza di sé e delle proprie capacità.
Dall’altro, a metterle nella condizione di assicurare la propria presenza nel mondo del lavoro, della politica, della scienza, della tecnologia, per colmare il gender gap e raggiungere finalmente la parità di cui si parla ormai da tempo.
Ma cosa significa esattamente, oggi, fare empowerment femminile in Italia?
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Politiche di self empowerment
Secondo Francesca Zajczyk, professore ordinario di Sociologia Urbana presso il Dipartimento di Sociologia e ricerca Sociale dell’Università di Milano–Bicocca, Mobility Manager presso il medesimo Ateneo ed ex delegata alle Pari opportunità per il Comune di Milano, il sesso femminile sottostimerebbe abitualmente le proprie capacità, caratterizzandosi per:
- scarsa autostima
- poca ambizione
- forte senso di colpa nei confronti dei figli per il tempo trascorso fuori casa
- difficoltà a considerare la carriera come un diritto
Inoltre, da un’indagine statistica promossa nel 2015 dal settimanale Donna Moderna in collaborazione con l’azienda dermocosmetica Boinike, emerge che le donne hanno enormi difficoltà a riconoscersi in modelli di donne che hanno raggiunto posizioni di vertice.
Infatti:
- Poco più del 50% dichiara di riconoscere come modello altre donne che hanno consolidato il loro ruolo nel campo dell’informazione, delle scienze o della medicina;
- appena il 22% si riconosce nelle congeneri che lavorano nella pubblica amministrazione;
- il 17% si identifica con modelli femminili nel campo dell’economia e della finanza;
- il 10% trova un riferimento nelle donne impegnate nella politica.
Culturalmente, le donne fanno fatica a identificarsi in modelli di donna che hanno raggiunto posizioni ad elevato grado di specializzazione, economicamente influenti o di potere.
È su questo che lavora il self empowerment: sulla capacità di riconoscere il proprio spessore personale, il valore aggiunto che ognuna di noi può portare alla comunità, la peculiarità delle proprie capacità in seno allo sviluppo professionale.
Come dovremmo raggiungere questo obiettivo?
Potenziare le soft skills
Se ne parla sempre di più ai colloqui di lavoro: le soft skills, ovvero le competenze trasversali che riguardano capacità cognitive e relazionali-comunicative, sono importanti.
Saper comunicare in maniera efficace, saper essere parte di un gruppo di lavoro, essere in grado di gestire lo stress, essere capaci di gestire il lavoro in maniera autonoma e senza necessità di una continua supervisione sono competenze che contano esattamente come le capacità tecnico-specifiche acquisite con l’esperienza.
E, ca va sans dire, si reggono sull’autostima.
Non ci si può più nascondere dietro un carattere riservato o timido: il mondo del lavoro richiede capacità di adattamento anche a ciò che sta fuori dalla propria comfort zone e, dunque, la parità di genere passa anche attraverso lo sviluppo di doti nuove.
Gli strumenti non mancano: dalle attività di personal coaching ai gruppi di supporto, dallo studio individuale ai workshop offerti dalle aziende.
Anche lo sport di squadra può aiutare in questo senso: sviluppa le abilità individuali, aiuta a percepirsi come parte indispensabile di un team, insegna il rispetto del proprio ruolo rispetto alla socialità ma anche il rispetto del gruppo prima delle esigenze individuali.
Sviluppare il senso di progettualità per il futuro
Quello che emerge in modo chiaro dai dati sull’occupazione in Italia è che a una consistente percentuale di donne in età lavorativa manca senso critico di progettualità per il futuro.
Nel 2019, 625.000 donne tra i 15 e i 34 anni, ha dichiarato all’Istat di non avere un lavoro, di non cercarlo, di essersi dedicata alle cure domestiche, dei figli e dei mariti e di essere soddisfatta così.
Intendiamoci: non è un discorso di disapprovazione personale. Nel migliore dei mondi possibili ognuno dovrebbe poter vivere la vita che desidera senza soffrire pregiudizi per le proprie scelte.
L’Italia, però, non è il migliore dei mondi possibili, e in Italia una donna che decide consapevolmente di non lavorare si espone a un duplice rischio:
- la premorienza statistica del coniuge di sesso maschile, con tutte le conseguenze in ordine alla flessione del tenore di vita conseguente alla percezione della sola reversibilità. E per “tenore di vita” non intendo i beni di lusso, ma la possibilità di vivere dignitosamente una volta pagati mutuo, bollette e spese legate al costo della vita e della salute;
- la mancanza di autonomia economica, che relega la donna in un angolo nel quale le sono precluse le scelte più importanti in ordine all’evoluzione del proprio rapporto di coppia. Una donna che non lavora è una donna che limita, anno dopo anno, la propria appetibilità per il mondo del lavoro, ed è una donna che non potrà decidere di andare via di casa qualora il suo matrimonio o la sua convivenza non la soddisfacessero più. Inoltre, i dati delle associazioni antiviolenza evidenziano che oltre il 40% delle donne prese in carico arriva tardivamente alla denuncia dei comportamenti violenti a causa della mancanza di autonomia economica.
Non è cinismo riconoscere che le donne vivono in media più degli uomini e che, dunque, statisticamente si è destinate a restare sole per un certo periodo di tempo.
Non è malafede pensare che i rapporti di coppia sono tutti bellissimi fin quando funzionano, ma se non funzionano più è necessario possedere gli strumenti economici per poter decidere di porvi fine.
Questo è un dato importantissimo per l’attuale situazione occupazionale ma anche assistenziale della donna italiana, ed è un problema che va affrontato immediatamente con politiche che lo Stato deve attuare per diffondere una cultura della progettualità e della tutela del proprio futuro.
Abbattere i pregiudizi di genere
Il problema più grande quando si parla di pregiudizi di genere è la difficoltà di mettere in discussione schemi e pregiudizi tramandatici dai nostri antenati, di generazione in generazione.
La convinzione che alcuni mestieri siano maschili, che le donne siano maggiormente portate per le attività di cura del prossimo, i comportamenti sociali che vengono riconosciuti come paradigma della personalità maschile e femminile sono difficili da abbandonare.
Ma è essenziale farlo.
Secondo i dati OCSE, soltanto il 5% delle ragazzine di 15 anni aspira a svolgere, in età adulta, una professione tecnica o scientifica.
Oggi, in Italia, le discipline STEM sono ancora culturalmente considerate appannaggio del gotha maschile.
È per questo che il Ministero delle pari Opportunità aveva stanziato due milioni di euro per realizzare, dal 1° luglio al 31 dicembre 2020, percorsi di approfondimento ed avvicinamento alle materie STEM e finanziarie, rivolti a bambine, bambini, ragazze e ragazzi dai 4 ai 19 anni.
Ora, con l’avvento del nuovo Governo Draghi, che posizione verrà presa in ordine alla formazione tecnologica delle bambine e delle ragazze?
E, data la mole immensa di denaro in arrivo dall’Europa, il Presidente Draghi affronterà il problema della strage del lavoro femminile dovuta all’emergenza sanitaria?
Da alcuni mesi 40 associazioni di donne dalle più disparate professioni, manager, economiste, accademiche, giornaliste e parlamentari lavorano alla redazione di un manifesto di proposte perché l’impiego del Recovery Fund non rafforzi lo squilibrio di genere.
Il rischio è enorme, se non dovesse essere risolto il problema del vincolo a favore di settori a prevalente occupazione maschile: le donne resterebbero ancora confinate fuori dal processo di riqualificazione lavorativa.
Non possiamo più permettercelo.
Empowerment professionale
Prima della pandemia di Sars-Cov-2, il 47,5% della popolazione femminile in età da lavoro non lavorava. Nella statistica dei paesi europei eravamo penultimi.
Perché?
Potenziare l’inserimento lavorativo femminile a tempo indeterminato e garantire l’equal pay.
Il primo dato a emergere con chiarezza era questo:
Le donne sono spesso insoddisfatte del loro lavoro.
Secondo quanto rilevato da Istat nell’indagine “Aspetti della vita quotidiana” del 2016, circa il 23,5% delle donne occupate ha dichiarato di non essere soddisfatta del proprio impiego.
Due anni dopo, il rapporto di AlmaLaurea sulla situazione occupazionale dei laureati confermava che in Italia le donne risultano meno soddisfatte del proprio lavoro rispetto agli uomini. Nello stesso rapporto si evidenziavano quelle che possono essere ritenute le cause oggettive di questa insoddisfazione:
- a 5 anni dalla laurea magistrale solo il 50,1% delle donne ha un contratto a tempo indeterminato, contro il 60,3% degli uomini;
- a 5 anni dalla laurea magistrale, il differenziale retributivo è alto: le donne guadagnano il 18,3% in meno dei colleghi uomini;
- a 5 anni dalla laurea magistrale, meno del 50% delle donne svolge un lavoro ad alta specializzazione. Gli uomini, invece, sono il 59,2%.
Creare una rete di servizi educativi e di caregiving diffusa capillarmente sul territorio nazionale.
In Italia l’avvento della maternità peggiora la qualità della vita lavorativa.
Sempre il rapporto AlmaLaurea ci informa che a cinque anni dalla laurea, la percentuale di occupate senza prole è dell’84,1% e supera le occupate con prole di ben 18 punti percentuali.
Il problema è noto: mancano adeguati servizi di sostegno alla famiglia e all’infanzia e ciò costringe le donne a scegliere tra il proprio lavoro e l’essere madre.
In effetti, secondo i dati di Fondazione Openpolis, nelle quattro regioni nelle quali oltre il 35% dei bambini da 0 a 3 anni frequenta un nido o un servizio integrativo (Valle d’Aosta, Umbria, Emilia Romagna e Toscana) il tasso di occupazione femminile supera il 60% dei casi.
La relazione tra accoglienza negli asili e nei servizi integrativi e tasso di occupazione femminile è dunque direttamente proporzionale e dove ci sono più asili, dove ci sono servizi integrativi su cui le famiglie possono fare affidamento, le donne tendono a lavorare di più.
Il Consiglio Europeo, già nel 2002 esprimeva la convinzione che ci fosse una relazione diretta tra presenza e ricettività di strutture educative per l’infanzia e tasso occupazionale femminile. In tal senso aveva, infatti, espresso la raccomandazione che tutti gli Stati membri – nel più breve tempo possibile e comunque entro il 2010 – raggiungessero un livello di assistenza all’infanzia pari almeno alla copertura del 90% dei bambini nella fascia compresa tra i 3 anni e l’obbligo scolastico ed al 33% per i bambini di età inferiore ai 3 anni.
Ma non basta.
Abbiamo bisogno di un sistema scolastico che garantisca il tempo pieno per tutti.
Abbiamo bisogno di un potenziamento dei servizi educativi pubblici 0-3 anni.
Abbiamo bisogno che lo Stato strutturi una rete di assistenza agli anziani accessibile e fruibile per tutte le famiglie.
Il caregiving parentale non è un lavoro da donne.
Disincentivare l’inattività lavorativa promuovendo la formazione e role modeling.
La Pandemia ha allargato la forbice dell’inattività lavorativa: a giugno del 2020, secondo ISTAT, il 45,5% delle donne italiane non aveva un lavoro e non lo stava cercando.
Parliamo, precisamente, di 8 milioni e 736 mila donne, prive di occupazione e non interessate a trovarne una.
Per capire esattamente l’importanza del fenomeno, bisogna metterlo in relazione con le disoccupate (ossia quelle che hanno perso il lavoro loro malgrado) che erano 1 milione e 85 mila, ossia il 10,2%; e le occupate, che erano 9 milioni e 602 mila, ossia il 48,9%.
Che si legge così: le donne che a giugno 2020 non avevano alcuna intenzione di cercare lavoro sono quasi la metà della forza lavoro femminile totale e quasi in numero pari alle donne occupate.
In un paese come il nostro, con il nostro sistema previdenziale, questa situazione non è sostenibile.
Scegliere di non lavorare non è un’opzione che il nostro paese può continuare a garantire e che va fortemente disincentivata.
È necessario potenziare la partecipazione femminile alla formazione professionale attraverso attività concrete di mentoring, non possiamo limitarci a finanziare corsi ai quali forse qualcuna si iscriverà, ingrassando gli enti di formazione e lasciando che solo una piccola percentuale delle aventi diritto prenda l’iniziativa.
Dobbiamo diffondere la cultura del lavoro come diritto inalienabile e dovere sociale, promuovere la partecipazione ai corsi ed alle attività professionalizzanti con misure incentivanti concrete, ispirare le donne inattive al role modeling. Che è quell’attività che permette di trovare modelli professionali che spingono a tirare fuori il meglio di sé per metterlo a disposizione della comunità.
Perché il paese ne ha bisogno. E quindi è il Paese che deve farsi carico dello sviluppo della professionalità femminile con ogni mezzo possibile: senza le donne non c’è crescita.
E le donne devono abbandonare quella zona di comfort che hanno abitato fino ad oggi per divenire parte di una comunità nuova, che le accolga come nuova forza propulsiva.
Ancora, nel 2021, l’uomo non è un’isola.
E nemmeno la donna lo è.
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